Macron cede ai gilet gialli ma è troppo tardi. Adesso rischia grosso

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I gilet gialli, il movimento che sta scuotendo la Francia, è riuscito a mettere a segno due risultati incontestabili. Il primo è la marcia indietro del governo sull’aumento delle tasse al carburante, la

miccia delle proteste dilagate dal 17 novembre in tutto il paese. Il secondo è l’aver messo d’accordo la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon e la destra post fascista di Marine Le Pen, almeno nel tentativo di accreditarsi come leader ideali della rivolta delle periferie contro il «governo dei ricchi» di Macron. Di periferico è rimasto molto poco, in un rabbia contro l’esecutivo che ha assunto le dimensioni di un movimento nazionale. Fertile anche e soprattutto nei centri urbani, in teoria distanti dalle «Francia abbandonata» che ha fatto da incubatore al malcontento.
La protesta, esplosa per rincari di 7,6 centesimi sul diesel e 3,9 centesimi sulla benzina, si è trasformata in una rivolta fiscale, con un’agenda sempre più ampia (ed eterogenea) di rivendicazioni. Per farsene un’idea, basta dare un occhio alla replica del movimento alla moratoria del governo sul caro carburanti: «Vogliamo gli stati generali della fiscalità e la rivalutazione degli stipendi, oltre a un vero elettroshock politico sulla rappresentatività» ha dichiarato Benjamin Cauchy, uno dei portavoce del movimento, aggiungendo che i gilet gialli non si sarebbero «addormentati» alla prima resa del governo. È stato di parola. Il gruppo ha respinto l’offerta di Macron ed è pronto a scendere di nuovo in piazza il prossimo sabato. gilet gialli

Il dualismo fragile tra città e province
Che la protesta dei gilet gialli non riguardasse solo il carburante o la marginalizzazione delle province era chiaro sin da subito. Alternative Economiques, un magazine economico francese, ha pubblicato un’analisi sulla «illusione» di una Francia spaccata a metà fra città e periferie, èlite e popolo martoriato dalle imposte. L’articolo sottolinea, ad esempio, che il reddito medio è più alto nelle zone periurbane rispetto a quello registrato complessivamente nelle città (20.975 euro contro 19.887 euro), contestando la narrazione di un «riscatto degli ultimi» rispetto alla popolazione upper class. Lo stesso problema della distanza fra Parigi e gli angoli remoti del paese si ridimensiona se si considera che uno dei focolai della protesta è Ile-de-France, la regione che ospita al suo interno proprio la capitale (e vanta il reddito più alto su scala nazionale: 3.324 euro mensili netti, contro i 2.250 euro della media francese). È ovvio che ci sono cause più profonde. La battaglia sulle accise dei carburanti si è allargata in una battaglia generale che ricalca i capisaldi di quasi tutte le forze populiste, attingendo a destra e a sinistra. Come ha scritto Laurent Joffrin, direttore del quotidiano Libération, il movimento sembra più che altro un «magma» dove si fonde di tutto: rivendicazioni per un salario minimo elevato del 15% e proteste per l’assenza di infrastrutture, ripristino della impôt de solidarité sur la fortune (la “tassa sui ricchi” abolita nel 2016 e rimpiazzata dall’imposta sul patrimonio immobiliare di Macron nel 2018) o tagli trasversali alle imposte. Non sorprende che la moratoria del governo sui rincari sia stata accolta con freddezza, come un atto dovuto. La protesta dei gilet gialli, a quanto assicurano i leader del movimento, è appena iniziata.

Una primavera «francese» veicolata da Facebook
Il dissenso è alimentato soprattutto dai social network, megafono collaudato dei movimenti di piazza. Una rivolta coordinata via social soprattutto su Facebook. Fra le stelle digitali del momento c’è Maxime Nicolle, meglio noto come Fly Rider, manifestante che diffonde sondaggi e video delle proteste, raccogliendo sulla sua bacheca le varie anime del movimento. Fra i suoi quasi 90mila follower c’è chi invoca una protesta pacifica e chi parla di destituire Macron, dopo essersi «informati in commissariato» su come avviare le pratiche. Su altre pagine i toni si fanno più aggressivi, anche se l’argomento principale resta quasi sempre lo stesso: le tasse. Il primo ministro Eduard Philippe ha messo in chiaro che «nessuna tassa può mettere in discussione l’unità nazionale». A giudicare dalla reazioni che si rincorrono online, c’è chi non è d’accordo. Come aveva twittato già domenica Melenchon, «tutte le rivoluzioni, in Francia, iniziano come rivolte fiscali».

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