“Il Mercante di Venezia”, diretto da Paolo Valerio, suggella la stagione della Grande Prosa Cedac.

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“Il Mercante di Venezia”, composta tra il 1596 e il 1597, fra le più amate e apprezzate commedie scritte da Shakespeare, arriva al Teatro Massimo con la regia e l’adattamento inedito di Paolo Valerio.

Con uno spettacolo brillante e avvincente, l’idea di fondo è sempre e comunque shakespeariana. A prima vista tutto sembra essere semplice, chiaro, delineato. Poi, entrando nel dettaglio, emergono quegli opposti come ebrei/cristiani, ricchi/poveri, padri/figlie, vendetta/perdono, legge dell’uomo/legge di Dio, apparenza/realtà, avidità/generosità, che rendono la vicenda alquanto complessa.

La Venezia di Shakespeare, dove soldi e amore viaggiano in sintonia, è propensa alla truffa, incline ai pregiudizi e antisemita.

Antonio (Piergiorgio Fasolo) è uno stimato mercante di Venezia che aiuta i suoi amici e concede prestiti senza guadagnarci nulla. Per aiutare il suo amico Bassanio (Stefano Scandaletti) a conquistare la ricca ereditiera Porzia (Valentina Viol, chiede un prestito proprio a Shylock (Franco Branciaroli) un usuraio ebreo disprezzato dal “ponte di Rialto in poi” a una condizione: una libbra della sua pelle in caso di mancata restituzione entro tre mesi.

Impossibilitato a restituire l’importo nei termini stabiliti, il mercante viene citato in giudizio davanti al Doge. Shylock, certo che l’ora della vendetta è giunta, è irremovibile: pretende il rispetto della penale nel nome della Giustizia vigente a Venezia.

A ciò si somma, il furto ad opera di sua figlia Jessica fuggita con il cristiano Lorenzo.

Porzia, arrivata da Belmonte, si finge dottore in legge e riesce a ribaltare le sorti del processo. Antonio si salva e impone a Shylock, oltre a privarsi della metà del suo patrimonio, di convertirsi alla religione cristiana. Branciaroli è semplicemente egregio nell’interpretare un uomo che desideroso di riscatto, si ritrova privo di identità.

Antonio, gentile, educato, raffinato, generoso o Shilock, avido e egoista? All’inizio, è facile schierarsi, provare simpatia per l’uno o per l’altro. Alla fine dei due atti, però, lo spettatore esce frastornato sulla collocazione del bene e del male. L’usuraio non si dimostra clemente ma forse lo sono stati con lui i veneziani? E il gentile e amato Antonio forse non si tinge di crudeltà quando impone la sua religione a un ebreo?

Una cosa è certa: la Grande Prosa Cedac, con questo spettacolo, chiude degnamente il sipario su questa stagione.

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