Hillary Clinton, un triste tramonto, battuta e umiliata

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Hillary Clinton coltivava da anni il sogno di tornare alla Casa Bianca, ma quel sogno è svanito per sempre. Nei suoi otto anni come First lady non si era limitata a infornare biscotti e preparare il tè ma aveva svolto un ruolo politico attivo, impegnandosi nella riforma per l’ampliamento del sistema sanitario nazionale. Riforma che mai andò in porto e che solo più tardi Obama riuscì a portare a termine. Nel secondo mandato del marito Hillary si mise di lato, accettando, di buon grado, di svolgere un ruolo di mera comparsa – com’era sempre stato per le First lady – senza disturbare il “manovratore”. Una ritirata strategica che nascondeva però un preciso calcolo: sapeva che prima o poi il suo momento sarebbe arrivato. E lo sapeva anche più tardi, quando insieme a Bill affrontò lo scandalo del Sexygate e l’impeachment sollevato dai repubblicani per il falso giuramento di Bill davanti al Grand jury sulla sua relazione con Monica Lewinsky, e per aver ostacolato la giustizia. Hillary difese a spada tratta il marito “malandrino”. E qualche anno dopo, quando le acque si calmarono, il fatto di non averlo mollato le tornò utile per dare inizio alla sua scalata. I due, infatti, nel giro di venti anni si diedero il cambio.

Se il primo a emergere sul palcoscenico della grande politica era stato lui, dapprima come “attorney general” (capo della Giustizia), poi come governatore dell’Arkansas, come candidato alle primarie dell’Asinello e infine come presidente, ora toccava a lei far vedere di che stoffa era fatta. Il primo “colpo”, nel 2000, fu l’elezione al Senato per lo Stato di New York. Fu eletta con il 55,27% dei voti, dopo una campagna elettorale per niente facile: l’accusarono di essere una privilegiata (la prima ex First lady che si candidava ad una carica elettiva), paracadutata dall’establishment in un seggio sicuro, che per giunta non le apparteneva perché neanche viveva in quello Stato. Lei fece la sua corsa e si impose beneficiando anche del ritiro per motivi di salute del suo sfidante repubblicano, l’ex sindaco della Grande Mela Rudolph Giuliani. Ottenuto il seggio iniziò la sua gavetta al Campidoglio, venendo poi confermata nel 2006 con il 67% dei voti.

Probabilmente già nel 2003, in piena era George W., cominciò a pensare alla Casa Bianca. Ci provò nelle primarie del 2008, ma gli andò male, pur essendo partita col favore dei pronostici. Sulla sua strada, infatti, si trovò un certo Barack Obama, giovane senatore afroamericano di belle speranze, formidabile macchina da voti in grado di mobilitare i giovani e le minoranze, facendole sognare con sole tre parole: “Yes we can”. Per Hillary fu un boccone amarissimo, parzialmente addolcito dalla carica, servitagli da Obama su un piatto d’argento, quella di segretario di Stato. Incarico che lei ricoprì per 4 anni, guidando la politica estera della Casa Bianca.

Non furono anni facili, con la lotta al terrorismo e le sanguinose guerre in Iraq e Afghanistan. Hillary giocò un ruolo attivo nella contestata destabilizzazione di alcuni Paesi del Nord Africa (le famose Primavere arabe), cui non seguirono regimi stabili. Si scatenarono pericolose reazioni a catena i cui effetti nefasti ancora oggi sono sotto gli occhi di tutti. Uscita di scena nel secondo mandato di Obama, cominciò con certosina pazienza a riannodare i fili della sua ragnatela, fatta di incontri ad alto livello (Clinton Foundation) e contatti importanti maturati nel corso degli anni. I tempi erano maturi e nel 2015 decise di rompere gli indugi, candidandosi per la Casa Bianca. Corsa in discesa, all’apparenza, con un Partito democratico che sembrava non volerle porre alcun ostacolo, designandola per raccogliere l’eredità di Obama. Ma un outsider, questa volta non giovane come Obama ma già in là con gli anni, il “socialista” Bernie Sanders, abilissimo nel raccogliere l’ondata di protesta dei giovani (Occupy Wall Street ma non solo), ha messo a serio rischio la nomination di Hillary. Lei si è dovuta impegnare come probabilmente non avrebbe mai immaginato di dover fare per ottenere l’onore – e l’onere – di correre come candidato per la Casa Bianca.

Nonostante una formidabile e ben oliata macchina da guerra (ribattezzata dai detrattori la “Clinton machine”), uno staff di oltre 700 persone retribuite più qualche migliaia di volontari, una fitta rete di fundraising che le ha permesso di raccogliere oltre 380 milioni di dollari, Hillary non è riuscita a tenere testa a un candidato forte e imprevedibile come Trump, che pur non avendo alcuna esperienza politica l’ha sconfitta e umiliata.

In conclusione è vero che dopo qualche decennio è arrivata a un passo dall’impresa. Ma non ha rotto “l’ultimo soffitto di cristallo” Per ragioni anagrafiche non passerà alla storia come prima donna presidente degli Stati Uniti d’America. La sua parabola tristemente è finita. Mancava poco. Ma non ce l’ha fatta e meno male.

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