Il ministro Bonafede, additato da Di Matteo come “condizionabile” alle rimostranze dei boss

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Il contesto è la pessima gestione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nei due mesi di lockdown. Quello che ha portato a rivolte, detenuti morti, svuotamento delle carceri come misura di sicurezza anti-virus (impossibilità di distanziare i detenuti nelle carceri sovraffollate) e, contestuale al primo, la concessione degli arresti domiciliare per motivi di salute a decine di boss mafiosi e camorristi, alcuni al 41 bis, altri in regie di alta sicurezza. Sono ben 376 i boss tornati liberi. Tra questi boss del rango di Pasquale Zagaria, Francesco Bonura, Ciccio la Rocca, Renato Piccolo, Carmelo terranova, Rocco Santo Filippone e tanti altri. Anni e anni di indagini buttati al vento. Va detto che una cosa è stata la liberazione di detenuti giunti a fine pena e per reati “minori” per misure di sicurezza legate al Covid. Altro è la scarcerazione dei boss perchè il Dap, nonostante le richieste dei giudici di sorveglianza, non è riuscito a trovare sistemazione idonee nelle strutture mediche che pure esistono in alcuni penitenziari. Fatto sta che le due misure si sono accavallate e che da settimane le opposizioni e Italia viva, che invece è in maggioranza, hanno chiesto le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini. Drammatico è stato in questo senso un question time della scorsa settimana alla Camera con Bonafede in chiaro imbarazzo. Le dimissioni di Basentini, nome uscito dalla relazioni istituzionali di Bonafede, sono giunte la scorsa settimana dopo un faccia a faccia domenica scorso con Massimo Giletti in una surreale intervista tv a Non è l’arena in cui Basentini non è stato in grado di spiegare cosa fosse successo nelle carceri italiane. Di fugare i dubbi che i disordini e gli incidenti siano stati strumentali e organizzati (alcune intercettazioni Vanni in questo senso) per poi ottenere quello che è accaduto: scarcerazioni di massa. Al posto di Basentini, il ministro ha nominato il pm antimafia Dino Petralia. Il numero 2 è un altro pm antimafia, Francesco Tartaglia.

La verità di Di Matteo

Domenica sera, la seconda puntata. Dopo aver ricostruito in studio con testimoni e documenti cosa è successo rispetto ai boss – Zagaria ma anche Piccolo sono andati ai domiciliari a casa, nei loro territori, che significa aver ridato loro pieni poteri – Giletti ha dato la parola al pm Nino di Matteo, non previsto in scaletta ma intervenuto a sorpresa al telefono visto che i suo nome era stato citato più e più volte nel corso della trasmissione. “Scusate ma devo chiarire” ha premesso l’attuale membro togato del Csm. “Due anni fa, quando ero in Dna, fui contattato dal ministro della Giustizia che mi propose di dirigere il Dap o in alternativa la Direzione generale degli Affari penali”. Di Matteo chiese 48 ore per decidere cosa fare. “Impiegai un giorno e tornai dal ministro accettando la direzione del Dap. Ma lui mi comunicò che per me sarebbe stata meglio la Direzione degli Affari generali, incarico a suo tempo affidato a Giovanni Falcone. Declinai l’offerta. Non chiesi perchè avesse cambiato idea. Non è il mio stile. Forse anche perchè imbarazzato dal fatto che proprio in quelle settimane il Gom (i reati speciali in carcere, ndr) avevano intercettato alcuni importantissimi capimafia che dicevano: ‘Se nominano Di Matteo, per noi è la fine, questo butta la chiave”. L’imprevedibile canovaccio della politica tutto poteva far immaginare tranne che Di Matteo accusasse Bonafede di aver “ceduto” ai desiderata dei boss. Comunque di non averli ignorati.

E la telefonata di Bonafede

Dopo poco anche il ministro fa la sua telefonata. Quella intercettazione “era già stata pubblicata”, non era quindi di quei giorni. E “il fatto che avrei ritrattato, in virtù di non so quale paura sopravvenuta, non sta nè in cielo nè in terra” ha detto Bonafede aggiungendo che “gli Affari penali del ministero non sono certo un incarico minore visto che fu ricoperto da Falcone”. A ruota ha provveduto l’ufficio stampa a notificare che Bonafede non c’entra nulla con le scarcerazioni su cui ha pieni poteri la magistratura di sorveglianza (ai tempi di Orlando ministro e Gennaro Migliore sottosegretario, Totò Riina e Provenzano furono curati in carcere) e a contare i 686 provvedimenti di 41 bis firmati dal ministro.
Le scarcerazioni dei boss sono un fatto gravissimo. L’allentamento del carcere duro fu uno dei passaggi chiave della ipotizzata trattativa Stato- Mafia nell’autunno 1994, nel processo quella fu la concessione dello Stato per far tacere le bombe e le stragi di Cosa Nostra. E’ altrettanto grave che un ministro della Giustizia in carica e un membro togato del Csm diano spettacolo su fatti così delicati per la democrazia. Una scena che non ha fatto bene all’immagine e alla sostanza del paese. (https://notizie.it)

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