Sudan, scontri tra esercito e paramilitari: vittime tra civili. Spari vicino all’ambasciata italiana

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AGI – Era nell’aria da settimane e quello che tutti scongiuravano è accaduto. Nei giorni scorsi si sarebbe dovuto firmare un accordo per aprire un processo politicoche avrebbe dovuto riportare i civili al potere in Sudan. La firma è stata continuamente rinviata per disaccordi tra l’esercito regolare, guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan, a capo del Consiglio sovrano, e il capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti. Tutto si gioca tra i due. Non si sono messi d’accordo, e così la capitale Khartoum, questa mattina, si è svegliata al suono di colpi d’arma da fuoco pesanti e leggere e di esplosioni quasi senza sosta. La situazione nella capitale, e in tutto il paese, rimane confusa. L’esercito dice di “affrontare il nemico” e parla di “milizie” che accusa di “bugie e “tradimento”. Secondo l’Unione dei medici sudanesi, almeno tre civili sono morti – due uccisi all’aeroporto della capitale e uno fucilato ad Al Obeid – e decine sono rimasti feriti. 

Durante il colpo di stato, Hemedti e Burhan hanno formato un fronte comune per estromettere i civili alla guida del paese dopo la cacciata di Omar al-Bashir. Col passare del tempo, tuttavia, Hemedti ha costantemente denunciato il colpo di stato. Anche di recente si è schierato con i civili – quindi contro l’esercito nelle trattative politiche – bloccando le discussioni e quindi ogni soluzione alla crisi in Sudan. 

Le radici dello scontro

Per giorni tra la popolazione della capitale Khartoum si sono rincorse voci di un imminente scontro tra i due campi. Già giovedì scorso l’esercito aveva denunciato un “pericoloso” dispiegamento di paramilitari a Khartoum e in altre città senza “il minimo coordinamento con il comando delle forze armate”. Per giorni i civili e la comunità internazionale hanno dovuto accettare un nuovo rinvio della firma dell’accordo politico che avrebbe dovuto far uscire il paese dall’impasse – a causa delle divergenze tra i due generali.

Le divergenze tra i due uomini forti del potere in Sudan riguardano essenzialmente il futuro dei paramilitari. Il ritorno alla transizione democratica dipende dal loro inserimento nelle truppe regolari. L’esercito non rifiuta questo compromesso, ma vuole comunque imporre le sue condizioni di ammissioni e limitarne l’integrazione. Hemedti, invece, rivendica un’ampia inclusione e, soprattutto, un ruolo centrale all’interno dello stato maggiore. Non solo, Hededti ha denunciato il fatto che le raccomandazioni finali avrebbero ignorato le loro proposte relative alla tempistica dell’integrazione nell’arco di due anni.

Il nodo, dunque, è quello del ruolo delle forze armate e la loro composizione. L’esercito, infatti, in Sudan ha sempre svolto un ruolo fondamentale e detiene buona parte del potere, non solo politico, ma anche economico. Controlla molte attività fondamentali per il paese. E qui sta anche la ragione dell’irrigidimento del capo delle Forze di supporto rapido. Ma altri problemi continuano a minare la fattibilità dell’accordo.

Una crisi senza precedenti

I Comitati di resistenza, così come l’Associazione dei professionisti sudanesi, che sono stati all’origine della rivoluzione del 2019, ripetono di rifiutare qualsiasi accordo con i soldati golpisti. E hanno continuato, regolarmente, a manifestare contro l’attuale regime. Infine, i gruppi armati che si sono rifiutati di aderire al dialogo a dicembre e hanno negato ai civili la legittimità di guidare la transizione si stanno mettendo di traverso. Gibril Ibrahim, attuale ministro delle Finanze e leader del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza, nei giorni scorsi sosteneva che “se le cose accadono così”, cioè come vuole Burhan, “non stabilizzeranno il Paese e le loro conseguenze sono sconosciute”. Ora si vedono tutte.

Sciogliere il nodo delle forze armate è fondamentale per un paese che ha sempre visto i militari sostenere il dittatore: sganciarle dal potere politico porterebbe il paese sul cammino della democrazia, metterebbe fine al regime dei golpisti e, soprattutto, ridarebbe fiato all’economia che sta vivendo una crisi senza precedenti e aprirebbe, nuovamente, la strada a interventi delle istituzioni finanziarie internazionali necessari per avviare riforme fondamentali per la vita stessa del paese. La comunità internazionale, infatti, ha chiesto il ritorno alla transizione per riprendere gli aiuti al Sudan, uno dei paesi più poveri al mondo. Se le parti in causa avessero raggiunto un accordo, la tabella di marcia prevedeva l’entrata in vigore della Costituzione provvisoria e la formazione di un nuovo governo civile, già entro questo mese. Poteva essere una svolta storica, ma tutto è stato soffocato dalla bulimia di potere, ancora una volta, dei militari. 

Palazzo Chigi: “Gli italiani restino a casa”

In Sudan il governo “segue la situazione di sicurezza dei cittadini italiani, che sono invitati a restare a casa o in altro luogo sicuro, come chiesto dalla Ambasciata d’Italia, aperta e operativa”, rende noto un comunicato di palazzo Chigi.

“Il Governo italiano segue con preoccupazione gli eventi in corso in Sudan e si unisce agli appelli ONU, UA e UE perché cessino i combattimenti a Khartoum e altrove, per la sicurezza del popolo sudanese e per risparmiare ulteriori violenze. Invita quindi le parti in causa ad abbandonare la via delle armi, e a riprendere i negoziati avviati da tempo, affinché il popolo sudanese esprima le proprie scelte nell’ambito di un processo elettorale. La violenza porta soltanto altra violenza”, aggiunge la nota.

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